2018/03/16

Carlo Blangiforti Ingrediente segreto



Carlo Blangiforti

L’ingrediente segreto

“Le fate Editore” 2017


    "L'ingrediente segreto", opera di Carlo Blangiforti mi è stato regalato da una amica.  Mi sembrava un libro da cucina, o che potesse trattare di ricette "segrete". Lo sfogliai incuriosito. Realizzazione eccellente. Foto di Vito Campo, stupende. Editore "Le Fate". L'Autore, Carlo Blangiforti, mi ricordava un cognome nobiliare antico, citato in araldica. Fu naturale per me leggere qualche riga qua e là. Compresi subito che mi trovavo davanti a qualcosa di molto serio e che si potesse trattare di un libro che
potesse custodire più di un segreto. Mi ripromisi di leggerlo. 

    Scopro immediatamente che si trattava di un  libro eccezionale, dalla potenza erudita  inimmaginabile e la capacità di cogliere i messaggi impliciti che contiene il cibo. Di per sé questo libro è un dolce condito con passione, amore, ammirazione per quello che è sempre stato il rapporto uomo-cibo-natura-cultura.  

      Per Blangiforti, anche il libro è una pietanza costituita da ingredienti: le parole, i concetti (q.b.) con cui costruire (stavamo per dire cucinare) con cura il suo discorso, le sue considerazioni, la sua ricetta del cibo.

   Parole, concetti con-legati fra loro in maniera elegante, bellezza formale della scrittura che sembra arrivare alla mente tramite il palato, perché questo libro non si legge, si gusta, piuttosto. E, tanto più si apprezzano le analisi linguistiche (le complesse analisi etimologiche delle parole),  tanto più si insaporisce la lingua nell’apprezzare gli ingredienti segreti dei cibi, quasi sempre storicizzati nei loro rapporti con culture altre, e tempi remoti.  Scrupolosa la ricerca delle origini e dei riferimenti. Questo libro sembra farcito a mano quasi si trattasse di un dolce alimento del quale si curano non solo gli ingredienti, ma anche e forse soprattutto la bellezza formale. Così, riferito al primo capitolo dedicato al cannolo, io non ho capito se cercavo di gustare il cannolo o le parole con le quali il prestigioso dolce veniva descritto.  Gustiamo questa descrizione:

         "Tra riferimenti pruriginosi e rischi minacciosi di attentati alle coronarie, tra volgari sottintesi e colesterolo, il cannolo è, dunque, vittima di una accesa diffidenza. Nel bene o nel male, il dolce resta un simbolo tutto siciliano, e come ogni simbolo conosce eccessi e fustigazioni, lotte intestine e asserzioni di supremazia. Quali sono i migliori cannoli della Sicilia? Ogni isolano dirà quelli del proprio villaggio, ma il primato è quasi all'unanimità assegnato a quelli di Piana. La corona è però contesa da quelli di Mineo, piccolo centro della provincia di Catania a pochi chilometri da Caltagirone. A Mineo (patria di poeti, di politici e, perché no, di pasticcieri) il cannolo è una istituzione che ha cultori attenti ma esigenti, è buono perché essenziale, gradevole perché semplice, misterioso perché nasconde un segreto. Pare che il titolare del bar più famoso del paese faccia uscire tutti i lavoranti e resti da solo a preparare l'impasto delle cialde. Un segreto intrigante, conservato con estrema cura, che non fa che accrescere il fascino di questa pietanza. Però i segreti sono fatti per essere indagati. A differenza di quello di Piana, A Mineo per la cialda non si usa marsala o cacao, ma uova intere, vino rosso e succo di limone". 

     Che dire di queste squisitezze? Vale più la descrizione del cannolo fatta da Carlo Blangiforti, o il prelibato dolce siciliano? Se dovessi votare, nel bene e nel male darei un fifty-fifty. Rapporto equo fra culinaria e cultura.     




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