2011/04/18

Canti d'amore e sdegno



Nella Sicilia di tanti anni fa



     L’amore uomo-donna è magico: sogno, comunione fra anime diverse, sessualità come unione di sfere complementari, delicatezza dei sentimenti. Nell’amore, tutto è indicibile, tutto è meraviglioso.    

     Un canto siciliano registra lo stato d’animo di un giovane uomo, che la prima sera di matrimonio scopre il seno della sua innamorata. L’evento è così descritto: “Quannu la misi ntra d’amatu lettu/ e ci scuprivi ddi minnuzzi d’oro/ si spaccau l’arma, si rumpìu stu pettu / quannu ci ntisi diri: “Matri, moru!” (Quando l’adagiai in quell’amato letto / e le scoprii quel seno delizioso/ mi si ruppe l’anima, mi si spezzò il petto/ quando lei sussurrò: “Madre, mi sento morire!)

     Ma, come ben sa il Proverbio “bon têmpu e malu têmpu, nun dura tuttu u têmpu”, e dopo i momenti belli, nella coppia subentra spesso la routine: l’erba del vicino può sembrare più bella e spesso per questo, le giovani coppie litigano e possono decidere di separarsi, per volare ad altri lidi. Le conseguenze sono dolorose, ma, in questi casi, è ancora la poesia che fissa i sentimenti di rabbia e lo sconforto. 

     L’amante tradito si vendica cantando di notte sotto la finestra della ex-amante versi che non sono più di amore, ma di indignazione, di rabbia.

      Se a tradire il patto d’amore è la donna, l’amante potrebbe inveire contro di lei cantando questa “canzuna”: “Quannu nascisti tu brutta lanazza / fiçi sett’anni di mala timpesta /  fusti ntrusciata (involtata) nta n-pêzzu ’i usazza (bisaccia) / nta na lanazza di pêcura vecchia / Cu na vota ca vinni a tŏ casazza / mi inchìi di puliçi e munnizza (mi riempii di pulci e spazzatura) / e quannu m’ammuntuvi la tŏ razza (la tua stirpe)  / lu scuncêrtu m’acchiana e u pilu arrizza (mi viene da vomitare e il pelo tutto mi si solleva). Ma, l’amante avrebbe potuto rincarare la dose: “Si’ comu na canazza quann’è gnesta (in calore), spinci la cura e cu’ ci arriva tasta” (assaggia). Oppure: “Si’ comu na jimenta ntra li serri, cu junci ti cravacca, punci e curri” (Giumenta in aperta campagna! chi arriva salta in groppa, spinge e corre). E ancora: “Víppiru tutti ni la tŏ funtana, li stissi pôrci n-ni vósiru chiu-i (Tutti hanno bevuto alla tua fontana: anche i porci si sono ingozzati).  Sullo stesso tenore sono i “Canti di sdegno” composti da una donna e riferiti al maschio: Curnutu, chi tŏ patri havìa li corna, e di tŏ nanna li corna tinìa./ Quannu nascisti tu chiuvêru corna / e n-launàru   di corna scurrìa. /La tŏ naca e lu lêttu fôru corna,  ntra corna e corna nutricaru a tia: vantari ti ni pô, chianca di corna, nun c’è curnutu parìgghiu di tia 

(Cornuto! figlio di padre cornuto!/ e (discendente) di tua nonna che teneva le corna/ Quando nascesti tu, ci fu diluvio di corna/ e torrenti di corna scorrevano ovunque/ la tua culla e il letto furono fatte di corna/ e tu fosti nutrito in mezzo a corna. Di questo ti puoi vantare! Nessun cornuto può batterti in una gara di corna).

     A quei tempi, le corna toccavano un nervo scoperto del maschio, e certamente la donna faceva centro senza mirare. Ora, per fortuna, i tempi sono cambiati. Di corna non ne esistono più. Il termine è caduto in disuso, e l’amore…
 
                                                        Gino Carbonaro

    

Tristezza del Fado


Marinai nelle mani del Destino

                                                di Gino Carbonaro


     Il Fado può essere utile per capire l’uomo. In portoghese, “Fado” è il Fato, il Destino, sconosciuta entità che domina il mondo, protagonista massimo delle cose che accadono sulla Terra. Il Caso, anche, che è la “Tyche” dei greci, il “Karma” del buddismo.

    Fato è colui che ci prende per mano e ci conduce dove vuole lui. Con una mano ci prende, ma con l’altra ci lascia liberi per farci illudere che noi siamo liberi di fare le nostre scelte. 

     In realtà, nessuno può dire cosa ci riserva il Destino, né quale sarà il nostro domani. Qualche volta cerchiamo di liberarci per sgusciare al Destino, lottare per decidere il cammino della “nostra” vita, ma in questi casi, Lui, il Fato, si infastidisce, e ci afferra con più forza e ci porta anche dove noi non vorremmo andare. Ducunt volentem fata, nolentem trahunt (il Fato accompagna chi ubbidisce, ma trascina con forza chi recalcitra)  dicevano i latini.

     Il Fado portoghese ha a che fare col Mare e col Destino, due energie potenti e misteriose. Ed è canto antico che registra dolore e tristezza di quei marinai che mettevano a rischio la vita nelle acque infide degli oceani. Ed erano gli stessi uomini che per la gloria della patria e dei regnanti di turno, salparono per i primissimi viaggi di circumnavigazione dell’Africa e, subito dopo la scoperta dell’America, per conquistare parti del Nuovo Continente.  
  
   Salpavano i galeoni della flotta portoghese fra benedizioni di preti e suoni di fanfare, ma il cuore di quegli equipaggi era velato di tristezza, e si leggeva nel volto dei familiari, immobili sul molo, uniti in gruppi di silenzio, a dare l’ultimo addio a coloro che avrebbero dovuto scrivere la storia del Portogallo. Salpavano le navi, e scomparivano all’orizzonte inghiottite dall’infinito. La meta era sconosciuta, la rotta non segnata da nessuna mappa, e nessuno poteva dire quando e se quegli uomini scelti dalla “necessità” e dalla “sorte” sarebbero ritornati là da dove erano partiti.
     Per il viaggio di circumnavigazione del mondo di Magellano partirono cinque galeoni fra benedizioni e rullii di tamburi, suoni di trombe e canti di  inni nazionali, ma dopo anni, solo una nave ritornò in patria con un pugno di uomini persi. Le altre quattro navi, una alla volta, erano state ingoiate dagli oceani.
    
     Destino, senso dell’esistere e della lontananza, dolore e sofferenza per le cose che muoiono,  mistero della vita, non esclusa l’ombra della morte, tutto è racchiuso nello struggente canto del Fado che, proprio per questo, è musica universale, in quanto, con quella filosofia che sconosce la logica, parla al cuore di tutti noi. In quel canto, pregno di nostalgia e di dolore, l’Universo sembra governato da una legge che recita: “Nessuno deve capire come è fatto il mondo, né da chi è stato fatto, né perché è stato fatto”. Così, l’uomo, prigioniero della solitudine, abbandonato a se stesso, fa sentire la sua pena in un canto che è pianto “lu cantu è chiantu”, direbbero i siciliani. È così che il Fado portoghese rivela, a chi sa ascoltare, lo stato d’animo dell’uomo gestito dalla forza del Destino.

                                                                            Gino Carbonaro